Interviste

VIOLETTA CHIARINI

Intervistata da Federica Sabatini per

VOCE ROMANA,

marzo-aprile 2011, pagina 40

www.poeti-poesia.it/SitiCommunity2/ViolettaChiarini/Violetta_Chiarini.htm   pag.1

 



(Versione integrale)

 Come è nata la sua passione per il teatro e per la musica e quali sono stati i suoi inizi? E’ stata una sua scelta, o l’ha  spinta  qualcuno,  magari i suoi genitori?

La passione per lo spettacolo, e in particolare per il teatro musicale, l’ho avuta fin da piccola. Mia madre mi raccontava, e io me lo ricordo benissimo, che, già all’età di due anni,   cantavo tutto il giorno,  non  le canzoncine dei bambini, bensì, con un italiano ancora infantile,  le romanze di Verdi e Puccini, che avevo imparato da mio padre,  patito del melodramma, e da mio nonno, che si dilettava a suonare il violino. Come sentivo la musica, salivo su un panchetto e “dirigevo l’orchestra”: era più forte di me. Ancora fanciulla fui portata all’opera, al Teatro alla Scala, dove mio padre, era un  habitué. Ascoltai compunta e affascinata “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi e decisi che da grande avrei “calcato le scene”.    Mio nonno  aveva sempre desiderato che a sette anni iniziassi lo studio del  violino e più tardi quello del “belcanto”, ma mio padre era fortemente contrario a una mia scelta artistica di tipo professionale.  Poi, purtroppo, mio nonno morì prematuramente e io dovetti riporre nel cassetto il mio sogno di diventare un direttore, o meglio una durettrice d’orchestra o una cantante lirica.  Siccome però amavo tanto anche il teatro di prosa, coltivai indefessamente e con costanza questa passione e, nonostante i continui e durissimi ostacoli familiari, alla fine riuscii a diplomarmi a pieni voti allo Studio di Arti Sceniche di Roma di Alessandro Fersen, dove mi aveva indirizzato Lee Strasberg, dopo avermi avuto come allieva in un suo stage di recitazione in Italia, quando ero una ragazzina e, come minorenne, impossibilitata a decidere del mio destino e quindi anche di seguirlo a New York, come  lui mi consigliava, per frequentare il suo famoso Actor’s Studio.   Fu così che passai dal teatro amatoriale a quello professionale, senza tuttavia abbandonare il canto. Infatti, a cominciare da Fersen, che mi   fece recitare e  cantare anche  a Spoleto Festival e al Maggio musicale Fiorentino (siamo nei primi anni settanta) nei suoi lavori di teatro totale, quasi tutti i registi coi quali  ho lavorato nella  prosa hanno voluto riservarmi, all’interno della pièce recitata, un  momento canoro  tutto per me.    Oltre che in teatro, ho recitato e  cantato anche alla radio - come soubrette in numerose  riviste radiofoniche e programmi d’intrattenimento - e in televisione, in minishow a puntate di cui sono anche autrice e - come ospite - in  programmi di altri artisti.   Da alcuni anni ho optato per  un  Kabarett-schau che mi consente di usare canto, recitazione e altre  tecniche espressive.

  • Qual è il suo punto d’arrivo?  Al livello professionale che ha raggiunto, pensa che ci sia ancora qualcosa  da  imparare?

Se si sceglie la professione dello spettacolo per vocazione e, in particolare, se si abbracciano l’arte del Teatro e quella della Musica, non esiste un punto d’arrivo, vale il principio dell’educazione permanente: si continua a imparare per tutta la vita. Questo è il mio pensiero e la mia prassi. Comunque, bisogna distinguere tra la carriera e il livello artistico raggiunto, poiché non sempre le due cose coincidono.  Per noi interpreti io penso che l’ideale sia avere un manager che ci aiuti a gestire la carriera nel modo giusto, consentendoci così di dedicare la maggior parte del tempo e le migliori energie al nostro lavoro, il quale esige una dedizione appassionata e incondizionata, uno studio continuo, un aggiornamento periodico e un  addestramento professionale rigoroso. Purtroppo in Italia  la figura del manager e quella del talent-scout non appartengono, al contrario di quanto avviene in altri paesi, alle categorie professionali legalmente riconosciute, con le conseguenze che si possono immaginare.

  • Cosa pensa del successo?

“Successo” è una parola che non mi è voluta mai entrare veramente nella testa. Io ho sentito il bisogno di dare un senso più profondo all’arte che ho scelto di professare e quindi di percorrere strade diverse, poco battute, per questo non facili e lontane dalle logiche di mercato e  dalle dinamiche di potere.  In  quest’ottica ho capito anche che bisognava assumersi il rischio di precorrere i tempi. Tutto questo raramente si concilia con la rincorsa al facile successo.  Il mio  desiderio è stato ed è quello di riuscire a stabilire una comunicazione sempre più profonda col mio pubblico. E’ così che mi sento felice, è così  che sento di realizzare il mio potenziale artistico e umano, è questo il tipo di successo che mi interessa. Quando qualcuno gode di quello che do sulla scena, o nei miei testi, e lo apprezza; quando critici onesti e validi scrivono giudizi positivi su di me, ecco, allora  io mi sento baciata dal successo.  Sia ben chiaro, non disdegno affatto il successo di massa, ma se esso dovesse arrivare (essendo un fattore imponderabile, è sempre possibile), cercherei con tutte le mie forze di farne uno strumento al servizio dell’Arte.  So che non è facile, e nello show-business italiano è una vera utopia, ma io appartengo costituzionalmente alla categoria di quelli che vogliono servire l’Arte e non di quelli che la  usano solo per la propria glorificazione. So che posso apparire una sciocca sognatrice, ma la realtà e l’esperienza mi hanno insegnato che  nella lunga distanza  la mia è una scelta  vincente, anche perché il pubblico, a qualunque livello appartenga, percepisce benissimo il mio approccio alla professione e mostra di apprezzarlo grandemente. D’altronde, non dobbiamo dimenticare che lo spettacolo appartiene per sua natura all’effimero e quindi che gli interpreti scrivono sull’acqua. Cambiano i gusti, cambiano gli stili,  le realtà  storico-sociali e culturali, cambiano  le esigenze del pubblico, per cui  il lavoro di un interprete, a qualunque branca dello spettacolo appartenga, non è mai  “per sempre”. Ed è anche la  coscienza di tutto questo a  suscitare in me una sorta di spirito di missione che dà al mio lavoro quel senso profondo cui accennavo prima.

  • Dunque, se ho ben capito, l’idea della missione contrapposta alla ricerca del successo?

Esattamente. Nelle mie scelte artistiche e nel mio modo di far teatro ho sempre cercato di non farmi condizionare  dal gusto corrente del pubblico, bensì di contribuire a orientarlo verso una forma di teatro allusivo, essenziale, privo di quegli orpelli che vorrebbero metterlo in gara col cinema e con la televisione, un teatro che recuperi la sua funzione primaria: quella di stimolare la mente e il cuore dello spettatore, che deve immaginare e provare emozioni, e poi, a spettacolo finito, riflettere e sentirsi arricchito.  In questo miei maestri sono stati Alessandro Fersen e Dario Fo, coi quali ho avuto la fortuna di lavorare.  Fersen, in particolare, quando facevo parte del “Giovane Teatro di Ricerca”, da lui fondato, insisteva sempre su questa “missione dell’attore” e sulla sua “santità laica” che lo spinge a realizzarla. Oggi l’influenza più importante su di me è esercitata dal mio Maestro spirituale, il filosofo buddista Daisaku Ikeda. Le sue parole mi sono di guida. Eccole: “Ci sono persone che godono di fama e celebrità, ma se non creano niente che abbia valore o contribuisca alla società e alla felicità degli altri, in realtà non sono minimamente da ammirare.  D’altro canto, ci sono persone che lavorano silenziosamente e invisibilmente per il benessere degli altri e il miglioramento della società. Sono queste persone che brillano di vera grandezza umana.” Ikeda si richiama anche al pensatore inglese Walter Pater che scrisse: “Il successo nella vita è bruciare sempre di continua passione mantenendo questa estasi”  Ecco, io - convinta come sono della necessità dell’educazione permanente - cerco di continuare a crescere a questa scuola e forse anche per tale ragione non ho cercato il successo con la S maiuscola.  A volte penso che, se lo avessi fatto, oggi avrei, con una maggiore notorietà, anche più denaro e potere contrattuale, fattori  utilissimi per la libertà di scelte artistiche,  ma poi concludo che, se la mia natura mi ha portato a percorrere certe strade piuttosto che altre, vuol dire che per me, per la mia vita, doveva essere giusto così e allora non ho rimpianti.  Penso che alla fine la fedeltà incondizionata a sé stessi paghi moltissimo. A pensarla come me è anche il cantante Shel Shapiro che ha dichiarato in una recente intervista “Se fossi stato meno rigoroso oggi sarei più ricco, ma non certo più innocente”.  E io concludo che tutto poi dipende da come ci si sente dentro. Anche in questo mi sono preziose le parole di Ikeda quando dice che la felicità, in definitiva, consiste in un forte senso di sé ed è una profonda eco nella nostra vita. Egli ci incoraggia a vivere con gioia, motivati da un forte senso di missione, e a realizzare i nostri scopi. E’ questo che fa sentire felici. Ed è questo per me il vero successo. A proposito di successo mi colpì quello che rispose a un giornalista della Radio Lalla Romano, una scrittrice che io amo molto, qualche anno prima della sua scomparsa. La Romano parlava pacatamente e io bevevo le sue parole, anzi, abituata a prendere rapidi appunti, feci in tempo a scriverle esattamente. Invitata  dapprima a fare un’autopresentazione, la scrittrice così si definì: “Una persona che ha sempre saputo cosa contava per lei nella vita.” Poi le fu chiesto che pensasse del suo successo tardivo, da lei accettato con molto distacco.  Rispose: “Questa parola, che vuol dire affermazione e riconoscimento, in questo momento non ha valore. I libri più venduti sono pessimi. E così certi programmi televisivi di grande audience; persino il Nobel  non vuol dire successo.  E’ una parola talmente circondata di falsità e di trucchi che non ha a che fare con la realtà.  C’è quasi da vergognarsene.”  Certo, quella di Lalla Romano è una posizione estrema e polemica, ma mi trova per certi versi d’accordo.

  • Lei prima ha parlato di precorrere i tempi, si riferiva ai suoi spettacoli?   

Sì, pressoché tutto quello che ho scritto e presentato al pubblico è stato antesignano, a volte non solo nei contenuti, ma anche nella forma, di spettacoli di colleghi venuti molto dopo. Ad esempio, nel periodo aureo del movimento femminista - che,  a mio avviso,  si può far partire dalla celebrazione nel 1975 dell’Anno Internazionale della Donna - il mio recital “E’ venuto il tempo di essere”, rivendicava il valore del femminile in una forma nuova, “più rivoluzionaria, perché senza invettive”, scrisse la critica, una forma, diciamo così, da donna, controcorrente rispetto a quella aggressiva e, per così dire, maschile delle altre femministe, che per me era già superata.  Per questo ad alcune donne del “movimento” non piacqui, ma il pubblico colse la profondità del messaggio che il mio spettacolo lanciava ed esso rimase in cartellone per anni a crescente richiesta, perché ancora valido, quando già si parlava di riflusso, e supportato dal successo dell’audiolibro “Femminilità e Femminismo” - della collana “Arte comica”, diretta da Roberto Lerici - che Mondadori  ne aveva tratto nel 1978, per la regia di Gino Negri.  Un altro esempio del mio andar contro tendenza ed essere in anticipo sui tempi: quando nei primi anni ’80 in Italia trionfava – con ritardo rispetto al resto d’Europa – la disco-music, io, che di questo genere musicale avevo inciso un disco a Berlino qualche anno prima, proposi  come contraltare il revival con “Vecchia Europa sotto la luna”, perché sapevo che, finita la stagione dei grandi cantautori e l’ubriacatura della disco-dance e con il ristagno della creatività che già si percepiva, lì saremmo approdati, o meglio, ci saremmo dovuti rifugiare.  Qualcuno alla RAI mi disse che ero matta, ma il pubblico e la critica mi fecero giustizia.  Anche “Telefoni bianchi e giubbe grigioverdi”, uno spettacolo musicale che fa rivivere sulla scena un periodo lacerante del  ‘900, debuttò in prima nazionale al Comunale di Latina nel 1994 e poi nell’Estate Romana, quando si era ben lontani dalla rivisitazione - attualmente in corso,  ma nel 1990, quando concepii lo spettacolo, ancora tabù - di quel periodo travagliato della nostra storia nazionale da parte del mondo politico-culturale. E si era ancor più lontani dall’attuale moda teatrale e cinetelevisiva di dedicare agli anni dal 1922 al 1943 i più svariati spettacoli.  Ora i miei lavori teatrali di revival, in grande anticipo sui tempi, sono più che mai up-to date e figurano nei cartelloni della prossima stagione.

  • C’è un aneddoto nella sua vita di attrice che le è particolarmente caro?  

Ne ricordo uno per me particolarmente significativo.  Dopo una severa selezione di giovani attrici, ero stata scritturata come protagonista dal Teatro Caminito di Buenos Aires che rappresentava in Italia la commedia “Casa Barranco”, di Gregorio de Laferrère.  Nel cast, oltre a Isa Danieli, Arnaldo Ninchi e altri prestigiosi interpreti, figurava la celebre attrice Paola Borboni, scomparsa quasi centenaria alcuni anni fa.  Il suo ruolo era quello della madre della protagonista e io mi trovavo a recitare in coppia  con lei le scene più importanti della commedia. Il regista argentino Cecilio Madanes ci dava delle indicazioni ben precise, ma gli era difficile guidare la Borboni, che aveva una personalità e un carisma eccezionali, uniti all’autorevolezza che le derivava dalla sua  lunghissima  e importante carriera, dalla sua fama e dalla sua veneranda età.  Oltretutto era conosciuta, anche dal grande pubblico, per le sue battute fulminanti, per il suo carattere anticonformista e per certi suoi atteggiamenti trasgressivi.  Basti ricordare lo scalpore che suscitò a livello mondiale (siamo negli anni ’70) il suo matrimonio con il poeta-attore Bruno Vilar, di quarant’anni più giovane di lei. Insomma, confrontarsi con un personaggio come la Borboni era sempre un po’ rischioso, specialmente per le  giovani attrici, cui lei non risparmiava giudizi severi e punzecchiature mordaci, ancorché esilaranti.  Si può bene immaginare, quindi, come, dall’alto della sua esperienza, stesse continuamente a “rivedere le bucce” al regista, dispensando a tutti, e in particolare a me che ero la sua partner principale, consigli e suggerimenti, laddove non veri e propri ordini, che contrastavano completamente  con le direttive della regìa.  Io avevo perciò una gran confusione in testa e non sapevo a chi dare ascolto.  Finché mi decisi  ad affrontarla – con rispetto, ma con piglio sicuro – dicendole: “Signora, qui c’è una persona che firma la regia e si prende la responsabilità dell’intera messa in scena.  La mia etica di professionista e la mia disciplina mi impongono di seguire le sue indicazioni che, oltretutto, ritengo giuste per la creazione del mio personaggio.  La prego quindi  di astenersi  dal fare le sue osservazioni in proposito.”  La Borboni ascoltò con gli occhi sbarrati senza replicare e si allontanò altezzosamente dalla sala prove. “Ecco - pensai - l’ho indispettita e adesso magari mi fa protestare o abbandona la compagnia, con grave danno di tutti,  e io ne sarò responsabile.”  Di lì a poco tornò, sempre con l’aria della maestà sdegnata, e le prove ripresero tranquille e filate fino al termine.  L’indomani, prima di iniziare a lavorare, mi si avvicinò con aria serissima e, mettendomi in mano un pacchetto infiocchettato, “Prendi! – mi disse brusca – E’ per te, aprilo!”  In quell’istante mi si bloccò il cervello, strappai febbrilmente i fiocchetti, lacerai l’involucro e mi ritrovai fra le mani una raffinata confezione da mezzo litro (!) di pregiatissimo profumo francese.  “Signora Paola …”, balbettai.  Ma lei mi troncò la frase. “Ieri - disse- hai saputo tenermi testa da vera professionista e io ti ho voluto premiare.  Ti preconizzo un avvenire di vera artista.”  Da quel momento fummo amiche per la pelle. Mi portò con sé al ricevimento dell’Ambasciata  Argentina, poi  - sapendo la mia passione per l’Oriente - mi regalò un  sari indiano ricamato.  Quanto alla commedia argentina, la nostra amicizia aveva dato ottimi frutti, sia sul piano del gradimento del pubblico, sia per gli elogi della critica che erano quasi tutti per noi due.  Alla fine delle repliche la Borboni mi segnalò a Garinei e Giovannini che, sempre dopo un accurato provino, mi scritturarono, con la stessa attrice, per “Ciao, Rudy!”, con Alberto Lionello.  Così  Paola ed io ci trovammo di nuovo a lavorare insieme. E innumerevoli sono le lezioni d’arte e di vita di cui fu prodiga con me. Durante la tournée della commedia  musicale  la Borboni si sposò con Vilar e io fui invitata al matrimonio.  Per regalo di nozze volle da me un ricettario. La cosa mi commosse: era già  molto anziana, ma  sognava come una giovane sposa, lei che non era mai entrata in cucina.  Le feci trovare il ricettario dentro un oggetto prezioso e lei gongolava con gioia infantile…    Della Borboni avrei tanti altri episodi da raccontare, ma non basterebbero dieci interviste.  Tutti, comunque, dimostrano che, al di là della grande personalità di attrice e del personaggio stravagante, e a volte scomodo,  c’era una donna vera e una persona di una generosità  e di un’onestà intellettuale davvero eccezionali.

  • Quali doti sono in genere necessarie per emergere?

Il talento naturale, lo studio e l’allenamento, la determinazione e l’ottimismo, la costanza e la pazienza, il coraggio e l’autostima,  la capacità di rinnovarsi, un’umiltà socratica e una buona  disponibilità verso gli altri. Queste sono le doti necessarie per diventare un artista e, in genere, un  professionista di vaglia nel campo che si è scelto.  E sono anche qualità che  consentono di creare valore nella vita, di diventare persone di alto spessore umano, oltre che professionale.  Chi  le possiede dovrebbe emergere automaticamente, ma non sempre è così. Molto dipende dall’ambiente in cui ci si  trova a  vivere e a operare. Ci sono contesti sociali in cui si sostengono delle mediocrità, trascurando, e talvolta lasciando marcire, i talenti veri e misconoscendo le persone meritevoli. In tali situazioni le doti per emergere sono ben altre e, comunque, quelle che ho detto non bastano, quando non sono superflue o addirittura controproducenti. Ad esempio, in un ambiente di lavoro pressappochista e sfaticato, la persona capace  che svolge bene e volentieri i suoi  compiti può avere vita difficile, e magari può  vedere occupato il posto che merita da chi ha usato altri mezzi per ottenerlo. E’ così che spesso  valore e carriera non coincidono. Nella vita ogni conquista ha un prezzo. Se si vuole emergere  bisogna sceglierlo e immancabilmente pagarlo. Sudore, fatica, sacrifici economici e disagi vari, dura disciplina, rinuncia agli affetti, alla vita privata, ma anche vendita delle proprie idee, del proprio corpo, della propria immagine, della propria coerenza e dignità, danni ai colleghi, che – per la legge inesorabile di causa-effetto che governa tutta la realtà – ricadranno su chi li fa:  questi ed altri sono i prezzi vari tra i quali deve scegliere chi vuole emergere. Ci sono poi i superfortunati che emergono senza pagare alcun prezzo, ma sono l’eccezione e, comunque, sono  quasi sempre supportati dalle famiglie, o dal coniuge o compagno-manager, che investono su di loro  il denaro o  le  aspettative per il futuro, o entrambe le cose, magari collaborando in misura rilevante - quindi anche con sacrifici di tempo ed energie - alla costruzione della carriera del loro congiunto. Penso, ad esempio, a Maria Callas.  Il vero artefice della sua carriera fu il marito, Giovan Battista Meneghini che, da ricco industriale, si trasformò in manager, abbandonando completamente la propria professione, per dedicare la vita al grande soprano. Ma normalmente il personal manager, come accade in paesi diversi dall’Italia, è un  professionista che vive del suo lavoro e allora  vorrà pur essere compensato e non di rado è accaduto  che grandi artisti dai cachet vertiginosi siano morti poveri, mentre il loro agente si era arricchito. Come si vede,  per poter emergere, un prezzo da pagare – direttamente o in modo indiretto – c’è sempre.  Penso tuttavia che nello show-busines di altri paesi, diversi dal nostro, le cose vadano in altro modo. Il mio coach americano Bernard Hiller, mi dice sempre che in U.S.A le persone di talento vengono sostenute e sono oggetto d’investimento, e che l’arte e la professionalità  prima o poi hanno i riconoscimenti che meritano.

  • Spingerebbe i suoi figli verso la carriera dello spettacolo?

Non soffocherei mai le loro aspirazioni, ma non li spingerei.  Li aiuterei  a realizzarle, ma solo se fossero oggettivamente basate su un grande talento artistico, su una salute di ferro, su una grande capacità di dare e su tutte le doti che ho elencato nella  prima parte della mia risposta precedente.

  • A quale tipo di pubblico rivolge i suoi spettacoli?

Il mio è un genere di spettacolo composito, che tende a far passare i messaggi culturali  attraverso la forza e la suggestione di linguaggi  espressivi in armonica contaminazione tra loro e in una successione drammaturgica che consente allo spettatore una fruizione partecipata, con diverse chiavi di lettura: emotiva, analitica, di approfondimento, di puro divertimento.  Ne consegue che i miei spettacoli risultano graditi sia  a un pubblico di élite, sia a un pubblico popolare.  Infatti vengono rappresentati nei circuiti della prosa, in quelli della musica classica e anche all’aperto nelle serate estive, in presenza di un pubblico eterogeneo.

  • Sappiamo che ha creato a Casperia (RI), in Sabina, il Centro Culturale “Piccolo Teatro del Violangelo”.  Come mai un personaggio del suo spessore artistico, che lavora normalmente in circuiti elitari, accetta non di rado di  esibirsi in  piazze di periferia e in piccoli paesi del Lazio?

Non faccio distinzione tra  gli spettatori.   Per me il  Pubblico è il Pubblico, in qualunque palcoscenico io mi trovi. E’ il mio approccio al  mestiere di attrice, di cui  ho già detto, che mi porta ad avere questo tipo di rapporto con  la Platea.  Ricordo, un po’ di anni fa,  quando partecipai ad alcune manifestazioni dell’Estate Romana e accettai volentieri di presentare un mio spettacolo in quartieri periferici, considerati degradati e rifiutati perciò da altri miei colleghi. Decisi di propormi a quel pubblico popolare come  avrei fatto per una  première alla presenza di critici in un importante teatro italiano: pianoforte a coda, tecnici di prim’ordine, costumi eleganti, accuratezza nella mia preparazione, ecc. Quel pubblico, che a detta di qualcuno avrebbe dovuto essere ingovernabile e addirittura pericoloso, mi dedicò una partecipazione attentissima e un successo davvero strepitoso, con ovazioni e richiesta di autografi. Se ti doni al pubblico, il pubblico si dona a te, se lo fai sentire importante, ti dà importanza.  Questa è la mia esperienza.  Con la mia “officina-teatrino” di Casperia, cerco di sensibilizzare alla cultura e al teatro gli abitanti di una zona meno servita in tal senso e di contribuire a valorizzare “La Perla della Sabina”, come viene chiamato l’antico borgo medievale, l’antica Aspra. Riguardo poi ad altri  piccoli paesi del Lazio, sono  vari i fattori che mi hanno reso lieta di portarvi uno o più dei miei spettacoli.  A volte è stata la fiducia e la stima per gli organizzatori, o la gentilezza e la simpatia delle persone con cui ho trattato; lo splendore architettonico di certi luoghi antichi del Lazio, o talvolta il loro fascino misterioso ; la soddisfazione di  scoprire e inaugurare, io per prima, una sala nuova,  o uno spazio bellissimo,  o un luogo con un’acustica eccezionale, o un’area ricca di opere d’arte  e nuova alle attività della cultura e dello spettacolo; infine il piacere della buona tavola che caratterizza quasi tutte le cittadine laziali.

  • Ha dei rimpianti? Qualcosa che non è riuscita a fare?

Sì, rimpiango di non aver frequentato il conservatorio di musica e di non essere diventata anche una musicista.

  • Com’è Violetta Chiarini fuori dal palcoscenico?

Una persona con tutti i difetti degli ansiosi e  con  alcune  insicurezze. Appena entro in scena tutte le mie paure svaniscono come per incanto.   Il rapporto col pubblico mi esalta, mi energizza, mi fa trovare quel contatto con la mia parte più profonda,  con la mia Fonte Sacra, che fuori dalla scena mi sfugge.  E’ lì che viene fuori la vera Violetta.   Anche se il pubblico fosse ostico, io mi divertirei lo stesso, mi sentirei come un domatore che riduce a ragione la belva e vince una grande sfida.  Sto lavorando molto su me stessa perché le due Violette si possano riunire e sento che con il potere terapeutico del teatro ce la farò alla grande.


 


VIOLETTA CHIARINI

 Intervistata da Michela Gabrielli per Mercuzionline.

venerdì, 15 aprile 11 10:51

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  • Se dovesse “contarli”, quanti corsi di recitazione ha seguito nella sua lunga carriera? 

Dopo un corso intensivo con Lee Strasberg, fui indirizzata dallo stesso Strasberg allo Studio di Arti Sceniche di Alessandro Fersen, che lui riteneva essere il solo in Italia ad insegnare il metodo di base da lui adottato al suo Actor’s Studio e che si rifaceva a Stanislawski.  Durante il triennio allo Studio Fersen già partecipavo, con altri tra i suoi migliori allievi, ai lavori che Fersen metteva in scena, dapprima in ruoli minori e dopo il diploma in ruoli di protagonista, come attrice e cantante.  Con i suddetti Maestri ho imparato anche che il principio dell’educazione permanente -da me, per altro, adottato da sempre- vale in particolar modo nell’arte dello spettacolo.  Per questa ragione ho partecipato e partecipo annualmente a seminari e master class -di cui ormai ho perso il conto- con grandi maestri dello spettacolo internazionale, per avere un addestramento professionale che mi salvaguardi dal ristagno, non raro in campo artistico, e mi tenga al passo coi tempi.

  • Sappiamo che ha talento, ma come fa ad essere tanto duttile nei “contrappunti” del teatro musicale; mi spiego: quando lei impersona canzoni con due personaggi che parlano tra loro, come fa ad essere tanto godibile?

Dovrei rispondere che non lo so, che è un fatto istintivo.  Ma penso anche che Il lungo allenamento ad entrare, a uno schiocco di dita, nel proprio mondo interiore, là dove risiede la radice di ogni immedesimazione, consente sulla scena  di passare da uno stato d’animo all’altro e da un ruolo all’altro con grande rapidità e soprattutto con quella sincerità che rende credibili e quindi, come lei dice, godibili, i personaggi rappresentati o evocati.

  • Oggi, rispetto ad anni fa, quali difficoltà ha incontrato nella preparazione degli spettacoli teatrali?  Per es.: le è più difficile l’interpretazione, o mettere a memoria, non so…?

Non ho mai avuto, né ieri, né oggi, difficoltà di ordine artistico.  Ho la memoria ben allenata, ho avuto la fortuna, da scritturata, di potermi affidare a registi validi e di stare al fianco di grandi attori dai quali ho appreso molto, e, in seguito, da autrice e attrice solista, ho imparato a essere regista di me stessa.  Le difficoltà di oggi, e sono enormi, sono tutte di carattere organizzativo ed economico. E’ scomparsa da tempo la figura dell’impresario che rischiava in proprio, scommettendo su un progetto o su un artista nel quale credeva, soprattutto perché aveva strumenti culturali per saper riconoscere il talento.  Il mio recital dedicato alla donna, “E’ venuto il tempo di essere”, un successo dei primi anni ottanta, nacque grazie alla lungimiranza della produttrice Isa Pisan.  E così alcuni miei spettacoli di revival che furono sponsorizzati dal Comune di Roma nella persona di  Gianni Borgna, noto musicologo e saggista, allora responsabile dell’Ufficio Cultura.  Oggi che lo show business raramente è in mano a persone artisticamente competenti, non ho più un interlocutore valido e, con la crisi economica del teatro, non ne ho in senso assoluto. Cosicché  quando ho qualcosa da dire e voglio crearci su uno spettacolo devo autoprodurmi, incontrando soprattutto la difficoltà di trovare, in un ambiente troppo spesso pressappochista, collaboratori affidabili e rigorosi.  Insomma oggi il teatro per molti  è diventato un lusso.  Ma io credo fermamente che l’ambiente rifletta le persone e che, se continueremo a creare valore, rieducando così anche il gusto del pubblico, tutto il  degradato sistema dello spettacolo italiano volgerà verso la palingenesi.    Sono una pazza a pensare questo?  O sono un’inguaribile ottimista?

  • Prova più soddisfazione a lavorare come autrice e regista di sé stessa, o preferirebbe, anche se non lo ha mai fatto, dirigere e scrivere per gli altri?

Tutti le mie performance  di spettacolo-concerto nascono in realtà da commedie musicali vere e proprie, con numerosi personaggi, fino a 25-30, corpo di ballo, musiche di autori europei del ‘900 poco frequentati in Italia, sontuose  scenografie e orchestra dal vivo.  Così mi nascono in testa e la mia parte autorale vorrebbe immediatamente mettersi in cerca di una buona (e ricca!) compagnia teatrale cui proporre il copione per la messa in scena. Ma poi l’interprete vince sull’autrice e vuole subito l’uovo oggi, anziché la gallina domani.  E’ così che da quelle commedie musicali sono nati i miei one woman show. Tuttavia, poiché i miei lavori hanno un’ambientazione storica che li rende realizzabili senza limiti di tempo, non escludo di potere, prima o poi, applaudire dalla platea una delle mie commedie musicali, oppure di poterla dirigere.  Non sarebbe la prima volta che mi cimento come regista di altri attori. Ho diretto due gruppi numerosi di interpreti in due diversi spettacoli di prosa con musiche, mie elaborazioni drammaturgiche, “Caro Ugo, caro Alessandro” e “Giovani Profeti”, al Teatro Comunale G.Verdi di Terni, e i tre protagonisti della commedia di Bruno Brugnola “Stavo tanto bene con i miei”, al Teatro Comunale F.Vespasiano di Rieti.  Ne ho un ricordo molto gratificante, poiché furono dei bellissimi successi.  Insomma, sono felice sia quando sto sulla scena, sia quando dirigo altri attori, sia quando scrivo un  testo, purché io faccia qualcosa al servizio del Teatro e della Cultura.

  • “Il teatro musicale” in cosa è diverso dall’operetta, soprattutto nelle interpretazioni?

Ci sono varie forme di teatro musicale. La più alta è certamente l’Opera lirica o melodramma.  Tra le altre forme, che prendono nomi diversi a seconda del paese e dell’epoca in cui vengono create (ad esse ho dedicato il mio spettacolo “La Diva de l’Empire”), spicca l’Operetta, che richiede pur sempre voci liriche o comunque educate al canto melodico, mentre nella commedia musicale moderna alle romanze si sostituisce la canzone nei suoi vari generi - pop, rock ecc.- e le esigenze vocali sono altre.  Circa l’interpretazione, sia delle parti cantate sia di quelle in prosa, non dovrebbero esservi differenze tra le varie forme di teatro musicale, poiché all’attore-cantante si richiede di far vivere sulla scena un personaggio, così come lo hanno concepito gli autori, di tenerlo fino alla fine, coerentemente, sia nel canto, sia nella recitazione.

  • La collaborazione con i musicisti, dall’interpretazione del Barocco in poi, le è stata molto utile?

 Utilissima, soprattutto perché i musicisti con cui ho lavorato erano prima di tutto grandi uomini di cultura. Parlo di Fiorenzo Carpi, Gian Paolo Chiti,  Giorgio Gaslini, Mario Migliardi, Gino Negri,  Jaqueline Perrotin, Cicci Santucci. Grazie a questi Maestri, che mi hanno fatto l’onore di vestire di musica i miei testi poetici, ho potuto accrescere la mia cultura e sensibilità musicale, affinare “l’orecchio”, come si dice in gergo, cimentarmi  fino in fondo come cantante, sperimentando anche nuove tecniche vocali; imparare come  può nascere una canzone e quindi diventare capace, pur non avendo studiato la musica, di suggerire io stessa soluzioni melodiche per i miei testi; acquisire maggior rigore nella mia preparazione e conferire ai brani da me cantati un più ampio spessore interpretativo per adeguare il canto alla nobiltà delle musiche.  Insomma la collaborazione con questi grandi ha costituito per me un importante e complesso percorso formativo.  Sono grata ad essi e conservo il ricordo delle loro peculiarità artistiche.

Eccole

A) L’arte musicale di Fiorenzo Carpi è nota a tutti e io posso solo aggiungere - accanto al ricordo di un uomo dal carattere tanto dolce e riservato, quanto generoso - che ho sperimentato - lavorando con lui, sia come autrice, sia come attrice e cantante ne “L’Opera dello sghignazzo”, di  Dario Fo - la sua straordinaria capacità di mettere la musica completamente  al servizio del testo. Voleva che sedessi al pianoforte al suo fianco mentre componeva una canzone per il mio primo recital.  La presenza dell’autrice - diceva - gli garantiva che il “vestito” musicale fosse perfettamente su misura per il testo poetico.

B) Di Gian Paolo Chiti mi piace sottolineare la versatilità e poliedricità: è capace di passare, in un batter d’occhio, da una composizione colta di stile settecentesco per musiche di scena alla sigla in ritmo reggae della mia miniserie televisiva “Si vien pro un dire”.

 C) Di Giorgio Gaslini, che ha scritto per me varie canzoni, tra cui un elegante blues, voglio ricordare la dedizione e il coraggio con cui si è battuto - anche attraverso le sue importanti pubblicazioni saggistiche -  per liberare il jazz dall’ambito angusto in cui era relegato. Gaslini ha vinto la sua battaglia, facendo assurgere il jazz al rango nobile di musica che si impara al Conservatorio, come la classica. Gli sono grata anche perché mi incoraggiò a portare in teatro Caterina, il personaggio comico di mia invenzione che lui seguiva alla radio.

 D) E che dire di Mario Migliardi? I “pezzi” che ha composto per alcuni miei spettacoli sono un trionfo di melodia e di ardite e futuribili forme musicali a un tempo. Autore molto fecondo - dalle musiche per le “Canzonissime” televisive e per il cinema, a brani di musica colta - fondatore, con Berio e Maderna, del famoso studio  milanese di Fonologia, è stato un grande studioso e sperimentatore.  Era bello conversare con lui, nella sua villa di Casal Palocco, e ascoltarlo, affascinata dai discorsi sulla scomposizione del suono.  Migliardi, uno dei migliori pedagoghi del Conservatorio di Santa Cecilia, aveva una passione segreta: scriveva romanzi di fantascienza!

E) Ed eccoci a Gino Negri, un uomo di un’ empatia unica, di taglia piccola, brillante, dinamico, ricco di humor e di fantasia. Dotato di uno spiccato senso del teatro, si esibiva spesso, e non solo per gli amici, in numeri musicali comici da lui creati – ne conservo una registrazione.  Mi confidò che le canzoni per me, tra cui un travolgente valzer musette e una marcia solenne, le aveva scritte in treno, senza l’ausilio di uno strumento.  E sono bellissime!  In Negri ho potuto apprezzare anche le qualità del regista, quando mi diresse nell’ audiolibro “Femminilità e femminismo” della collana “Arte Comica”, che la  Mondadori trasse da un mio spettacolo.

F) Di Jaqueline Perrotin, sempre sulla breccia come compositrice e pianista di vaglia, ricordo la classe, la simpatia, lo charme tipicamente francese. Grandiosa nel mettere in musica i testi bizzarri che io le sottoponevo:  è riuscita ad accentuarne, attraverso invenzioni musicali geniali e senza cambiare una virgola, il carattere autoironico o tragicomico. Una  musicista con un senso del teatro straordinario, condito da una forte spruzzata di esprit de finesse.

G) Cicci Santucci, magica tromba del jazzinternazionale, arrangiatore raffinato dei brani composti per me dagli autori di cui ho parlato, ha scritto la musica per la versione inglese di una mia canzone, creando una sintesi mirabile tra la melodia classica di grande respiro e il cool jazz.  Nella registrazione che ne è stata realizzata con la grande orchestra ritmo-sinfonica della RAI, da lui stesso diretta per l’occasione, Santucci si esibisce anche in un magistrale  assolo di tromba. E io ho potuto far tesoro, sia dal punto di vista puramente canoro, sia da quello interpretativo, dei preziosi consigli che  mi diede in sala d’incisione.

  • Secondo lei il teatro è ancora in crisi, sia come  risposta del pubblico, che dal punto di vista economico?

Domanda da un milione di dollari!   Da tempo immemorabile si parla di crisi del teatro. In realtà il teatro come espressione dello spirito umano che ha bisogno della ritualità non è mai stato in crisi e non lo sarà mai.   Il teatro come prodotto della cultura di un popolo e come fenomeno sociologico e di costume è invece condizionato da vari fattori che ne determinano il successo o la sconfitta nelle varie epoche.  Tra questi fattori oggi in Italia il più importante è sicuramente quello economico, ma non darei tutta la colpa alla politica culturale del Governo.  Quando per fare l’arte si dipende troppo dallo Stato si rischia di perdere la libertà di espressione.   I teatranti italiani, ormai da troppo tempo,  si sono fatti scippare il teatro dai politici e questo ha distrutto la possibilità che il teatro procedesse esclusivamente sulla strada del merito e della qualità, riconosciuti dal pubblico e dalla critica di recensori validi e onesti. Lo stato può essere di ausilio per incoraggiare la ricerca e aiutare le nuove leve in iniziative che siano di effettivo vantaggio per la crescita culturale del Paese, ma non è sano che l’arte dipenda dallo stato.  In altri paesi dell’area occidentale i finanziamenti alla cultura arrivano da enti privati, che ricevono agevolazioni fiscali per questa loro attività e, per quanto riguarda il teatro, quel che conta è la qualità dello spettacolo, che resta in scena solo se incontra il gradimento della critica e del pubblico.  In Italia la gente va a teatro, nonostante la crisi economica e questo è molto lodevole, ma il gusto del pubblico, come ho già detto, dev’essere rieducato, perché l’omologazione e il trionfo del brutto in tutti i campi della vita hanno fatto perdere alla gente la capacità di riconoscere l’arte e di fruirla in modo non acritico. A questo si aggiunga una sorta di analfabetismo di ritorno legato alla bassa qualità dell’insegnamento primario e secondario.  La responsabilità del cambiamento e del riscatto è nelle mani di chi opera nella cultura, quindi, in buona parte, anche in quelle dei politici.  Ma se noi teatranti vogliamo riappropriarci del teatro, riportandolo ai livelli dell’Arte, dobbiamo smetterla di cercare il facile successo e di appiattirci sui modelli televisivi.  Il pubblico è pur sempre intelligente e bisogna avere il coraggio di investire sulla qualità, perché, pur se alla distanza, è l’unica possibilità di vincere.

  • La sua esperienza con De Sica e Zavattini che cosa le ha fatto guadagnare, soprattutto nella recitazione? Questi due autori erano molto amici?

Vittorio De Sica, che mi aveva notato al Festival dei Popoli di San Marino in uno spettacolo con musiche del figlio Manuel, mi chiamò per offrirmi il ruolo di protagonista in un film che stava scrivendo con Cesare Zavattini. Ebbi così modo di frequentare i due Artisti. Ricordo un pomeriggio nella casa che Zavattini aveva sui Colli di Cicerone.  Il Maestro stava allo scrittoio con i fogli della sceneggiatura  davanti e  mi leggeva dei passi, io ero seduta nel vano della finestra di fronte a lui. A un tratto Zavattini mi dice con quel suo accento fortemente emiliano: ”Ferma, non ti muovere! Hai un raggio di sole sui capelli! Questa immagine mi sta ispirando!”  Smise di leggere e cominciò a scrivere velocemente.  Era un poeta!  Mi ripeteva che la vera arte è quella che arriva a tutti, anche se ognuno la recepisce secondo una chiave personale, e che,  per questo, prima di “licenziare” un suo  lavoro, magari già collaudato da lettura da parte di amici o colleghi autorevoli,  era solito leggerlo alla sua domestica, una persona molto umile e senza istruzione. “Se piace a lei -diceva- vuol dire che funziona!”  Questa fu per me una lezione sull’essenzialità dell’arte.  A Roma andavo a trovarlo nel suo appartamento di via Sant’Angela Merici, dove ammiravo i suoi quadri un po’ stravaganti, dallo stile personalissimo e restavo incantata ad ascoltarlo quando mi parlava di pittura e di Luzzara, il suo paese natale.  Insieme a “I poveri sono matti”, cui seguì il regalo di altri suoi libri, mi fece dono di un autoritratto con dedica che conservo con orgoglio. Si esprimeva in un linguaggio asciutto e forte, che ti scavava nell’anima, ed era, allo stesso tempo, una persona di una naiveté disarmante. Ti faceva pensare al Fanciullino pascoliano, che lui citava spesso nelle sue conversazioni. Se mi sono decisa a cimentarmi come autrice lo devo a Zavattini, che mi incoraggiò in quella direzione, dopo avermi consentito di carpire dalla sua saggezza di artista completo, e sempre molto in anticipo sui tempi,  alcuni importanti canoni della scrittura creativa. Sotto l’influsso dell’etica e dell’estetica zavattiniana mi presi cura di sponsorizzare un pastore che scriveva poesie con lo pseudonimo di Boschivo. Zavattini, scevro da qualsiasi forma di snobismo intellettuale, accettò di leggere il manoscritto e quando, tramite il pittore Turchiaro, io riuscii a farlo pubblicare da Laterza, fece la prefazione del libro.  Una bella lezione di vita per tanti autori tronfi del mondo della cultura e dello spettacolo! Quanto al film di De Sica, la cui sceneggiatura era stata il motivo del mio incontro con Zavattini, era accaduto che, per cosiddette esigenze di distribuzione, che De Sica, trovandosi in un momento particolare della sua vita, decise di accettare, io ebbi nel film un ruolo da non protagonista.  Ne soffrii molto, ma a distanza di anni, mi accorgo come sia stato comunque determinante per me essere diretta da De Sica e vederlo lavorare sul set.  Anche col grande regista, grazie all’aiuto iniziale di Manuel, musicista raffinato e sensibilissimo, si era stabilito un rapporto di grande umanità e stima reciproca, potenziato dalla simpatia ricambiata che mi mostrava Maria Mercader, spagnola, ancora bellissima, ex star del cinema, moglie di Vittorio e madre di Manuel e  di Christian (che già calcava le scene televisive a Caracas). Ero spesso a colazione da loro e conversavo in spagnolo con la Mercader, ma ammutolivo piena di soggezione quando parlava De Sica.  Lui era il contrario di Zavattini. Tanto Zavattini era una specie di monello, un po’ pantofolaio, ruspante e coltissimo, quanto De Sica era mondano, intraprendente, signorile e severo nel tratto, e ancora affascinante.  Sul set rimanevo, mettendomi molto discretamente  in disparte,  anche quando ero in pausa, perché,  oltre alle nuove cose che imparavo sotto la guida diretta di De Sica e  vedendolo dirigere gli altri attori, anche nelle scene che non riguardavano il mio personaggio, ritrovavo nel suo metodo di lavoro, nella sua maieutica, tutti  i principi fondamentali della recitazione che avevo acquisito con Strasberg e con Fersen, primo fra tutti quello di non raccontare col volto e col corpo i sentimenti, gli stati d’animo, ma di viverli.  La  continua lezione di recitazione e di regia, nonché di leadership, che De Sica dava sul set, mi è stata preziosissima quando mi sono trovata a dirigere io gli attori in teatro. De Sica riusciva a rendere bravo chiunque, anche chi attore non era, come nei suoi famosi film neorealisti.  A volte si arrabbiava e otteneva lo scopo: “Non recitare, non fare le facce! Sii naturale, sii vero!” Ricordo che si arrabbiò persino in sala di doppiaggio quando sentì dire le battute in modo troppo teatrale ed enfatico, non adatto alla naturalezza che il cinema richiede. A volte, per ottenere in un primo piano l’espressione desiderata, improvvisava delle situazioni che provocavano sul volto dell’interprete  la reazione giusta.  Una volta, in una scena in cui serviva il primo piano di una bambina piccola piangente,  ordinò di tenersi pronti col motore e col ciack e, dopo essersi scusato con tutti i presenti per la crudeltà che a volte il cinema richiede, disse “Portate la bambina!” E alla piccola: “Fa’ la brava, perché il dottore con l’ago lungo viene a farti l’iniezione.” La bambina spaventata scoppia a piangere. Buona la prima! Ovviamente.  Scena da Oscar.  Ma De Sica era anche ricco di sentimento e di umanità.  Non aveva dimenticato la mia delusione per il mancato ruolo di protagonista e sul set mi coccolava e voleva che la Produzione facesse altrettanto, usandomi tutti i riguardi che si riservano alle star, e come attrice mi valorizzava al massimo.  Qualche mese dopo la fine del film venne ad applaudirmi in “Ciao Rudy”- edizione con Alberto Lionello - al Lirico di Milano, e l’indomani, durante una passeggiata in via della Spiga  -conservo ancora le  belle foto che ci furono scattate-  mi disse che aveva pronto per me il ruolo importante di una nobildonna nel suo prossimo lavoro.  Ma non ci fu un prossimo film, perché il grande Maestro del Neorealismo, nonché grande attore, già minato dal male,  ci lasciò di lì a poco.

Con la sua scomparsa finiva anche il binomio vincente De Sica – Zavattini.  Un binomio basato sulla complementarietà dei due artisti, cui ho già accennato.  Essi, per quello che ho potuto comprendere io,  sono diventati grandi proprio perché uniti e inscindibili nella loro totale diversità.  Ognuno possedeva quello che mancava all’altro. Circa il loro rapporto umano  e di amicizia non potrei dire, ma, secondo i racconti dei “ragazzi” De Sica, come tutte le coppie, a qualsiasi tipo appartengano,  avevano i loro alti e bassi. Ma, alla fine, si ritrovavano uniti in nome del grande amore comune: il cinema.

  • Lei crede che, riguardo al cinema, (anche se mi ha già accennato che non ha avuto modo di proseguire su questa strada) i nostri autori vivano ancora negli “strascichi” del neorealismo?  Oppure stanno cambiando?

Oggi possiamo dire che  le cinematografie che si rifanno spesso al neorealismo sono quelle emergenti, e forse non solo per motivi artistici.  Non penso invece che nei nostri autori attuali si trovino strascichi di neorealismo, anche se ci sono film che potrebbero far pensare il contrario.  Mi vengono in mente, ad esempio,  Daniele Luchetti e  Ferzan Özpetek.  Semmai, in molti casi, io parlerei piuttosto di iperrealismo.

               (domande formulate da Michela Gabrielli)